Her: Capitoli Universitari
Capitolo 2: Torino

Carissimi e carissime voi,
c’è una panchina di legno di fronte al Castello del Valentino, ringrazio la presenza del Po davanti a me: è diventato punto di riferimento.
Come una delle principesse più naïf dei cartoni animati, di quelle che non vogliono il cavaliere, il principe azzurro e i vestiti eleganti perché sono loro che vanno a cavallo, tirano con l’arco e cantano almeno tre canzoni sulla loro indipendenza, obbligatoriamente scalze o con super scarponcini; dicevo, come una delle principesse più naïf dei cartoni animati, vengo guidata dall’acqua, dal fiume che scorre e che continuo a seguire.
Vorrei poter dire che lo seguo per spirito d’avventura, che mi lascio portare per scoprire
dove arrivo e per potermi stupire dei posti in cui finisco; invece mi è solo morto il cellulare. Seguo il fiume, come in un cartone animato, ma solo perché non ho più Googlemaps
con me e non so nemmeno da quanto tempo: pure l’orologio mi si è fermato.
Benissimo.
Niente mappe, nessun orario, una città sconosciuta abitata da sconosciuti.
Questo è ciò che succede quando viaggi da sola, o meglio, quando prepari la borsa prima di aver preso il primo caffè della mattina; allora con me ho tutto, tutto fuorché un caricatore portatile o un cavo con cui attaccarmi in qualche bar o libreria, niente.
Torino vista dall’alto è tutta quadrata, ed io lo so perché alcuni bar hanno ancora delle mappe cartacee della città da dare: non ho idea di dove io sia, di dove sia stata, di quale ponte abbia veramente avuto davanti e se, camminando dritto per dritto, stavo veramente andando verso nord.
Vista dall’alto, Torino è geometricamente perfetta: se Bologna era una signora dai fianchi un po’ molli, fatale, grassa e umana1, Torino è una donna giovane.
Una Signora con un tailleur chiaro, ma un tailleur fatto con la gonna, ha i capelli raccolti, perfetti, la pelle tirata, elastica, non sai bene quanti anni darle ma in fondo sai che è giovane, che si comporta da Signora ma quando può si sfila i tacchi, abbassa un po’ la zip del tailleur, e cammina a piedi nudi.
In verità, che questa città fosse quadrata l’ho scoperto appena arrivata, non bisogna per forza guardarla dall’alto, basta prendere un bus: calcolando il tempo che impiega, nella sua lunghezza, a svoltare nei vari vicoli tra le curve della città, è subito
chiaro che a piedi si fa prima.
Ma ripartiamo dal principio: c’è una panchina di legno di fronte al Castello del Valentino, nel suo belvedere.
Il Po è attraversato da gente in Sup e canoe, anche loro si fanno trasportare dal fiume, mi piacerebbe vedere le loro espressioni se mi levassi le scarpe, prendessi la rincorsa e con uno slancio di coraggio saltassi su una di loro; come si chiede un passaggio su un fiume? Si può fare un Canoa-stop?
Dicono che i piemontesi siano freddi, dei finti cortesi, ma potrei giurare che il signore che mi naviga di fronte, se si ritrovasse una ragazza a piedi nudi che gli rimbalza sulla canoa, magari una ragazza che ci casca anche nel fiume, riderebbe.
Ma dicevamo, c’è una panchina di legno di fronte al Castello del Valentino;
mi levo gli scarponcini, anche i calzini, sedermi a piedi nudi di fronte al fiume, di fronte al Castello, è il mio piccolo premio per aver affrontato tutta la città a piedi.
È l’ora dello Spritz, questo lo so anche senza sapere l’orario; un signore accanto a me lo beve con aria incantata: ha tirato via da un bar una sedia in metallo rosa, portandola con sé. La signora che lo accompagna è seduta sulla panchina affianco alla mia, lui ha preso la sedia rosa. Beve il suo Spritz in silenzio, con una polo violetta,
le gambe accavallate ed un paio di mocassini da cui sbucano dei calzini con dei piccoli bassotti ricamati sopra.
I torinesi fanno come pare a loro: prendono le sedie da altri bar, predispongono il luogo per come stanno meglio, per come stanno più comodi, e poi risistemano tutto; non chiedono il permesso, agiscono e poi sistemano.
Prima di arrivare al Po, di scendere verso il fiume, ho chiesto informazioni ad una ragazzina con i capelli blu: ha una banco dove vende il suo artigianato, con gentilezza mi ha mostrato dove andare, con gentilezza mi ha sorriso, ha osservato la mia mappa cartacea girata al contrario e anche un po’ strappata, e con gentilezza mi ha venduto degli orecchini blu, come i suoi capelli.
Una delle mie insegnanti di storia raccontava sempre che la falsa gentilezza dei piemontesi, la “finta cortesia sabauda”, veniva direttamente dall’ottocento, anzi, dal 1864: la capitale d’Italia era Torino, e quell’anno fu spostata a Firenze e poi a Roma, il popolo non la prese bene.
Ma Torino è un calderone, elegante ma pur sempre un calderone; quando a scuola si parlava di New York come “calderone”, il melting pot di New York, visualizzavo il calderone d’acciaio scuro di una strega, uno di quelli dei film.
Torino invece è una di quelle pentole trasparenti che vanno di moda ultimamente, utilizzabili chiaramente solo su un piano a induzione: è bella e complessa.
Per scendere verso il fiume, per raggiungerlo, mi è stato detto dalla ragazzadaicapelliblu di seguire la musica: era vero, c’era della musica.
Prima della discesa che portava alla riva del fiume, c’era un carro con delle persone sopra, alcune in giacca e cravatta, altre in costume, e ballavano della musica tecno con cartelloni che inneggiavano alla libertà della cultura.
È da stamattina che mi danno del Lei: mi chiamano Signora, Dottoressa, mai signorina, mai una parola fuori posto.
La frase che più ho sentito ripetere è stata: “prego, si accomodi”.
Ed anche ora, davanti a questa discesa, davanti a questi cartelloni e questa gente che balla alla ricerca della propria libertà, del preciso movimento che faccia crollare la coltre d’imbarazzo lasciandoli scorrere nella più totale assenza di filtri, anche ora, anche qui, è come se qualcuno continuasse a dirmi con garbo: prego, si accomodi.
Io mi accomodo, cammino, anche se ho i talloni scorticati e le gambe pesanti, perché Torino è un piccolo tempio e fermarsi sarebbe un peccato.
Le città hanno un’anima; sarebbe stato d’accordo Calvino che ha messo su un libro fatto di città fittizie, fatto dal racconto di viaggi fantastici in città che parlano per la loro popolazione?
Quando sono arrivata non si vedeva molto, al mattino presto la nebbia ha circondato tutto, c’era “un mare di latte”2, come avrebbe detto Fenoglio.
Torino è quella Signora in tailleur e tacchi che, dalla sua altezza, ti mette in soggezione: è coperta da un mantello morbido di storia, di tutti i personaggi che l’hanno attraversata e vissuta, di tutte le persone che lì hanno lasciato la vita.
Torino era di Giulio Einaudi, di Calvino, dei Ginzburg, di Pavese, delle industrie grandi che iniziavano a nascere e che solo penne come quella di Ortese riuscivano a descrivere e criticare.
Ricomincio, appena sono arrivata ho tremato, solo un pochino: un po’ perché solo la vista della nebbia mi faceva sentire freddo, un po’ per il pensiero delle persone che erano passate di lì, dove io stavo lanciando il mio passo strascicato da scarponcini pesanti, un po’ perché la città intimorisce.
Ricomincio, appena sono arrivata ho tremato, solo un pochino: un po’ perché solo la vista della nebbia mi faceva sentire freddo, un po’ per il pensiero delle persone che erano passate di lì, dove io stavo lanciando il mio passo strascicato da scarponcini pesanti, un po’ perché la città intimorisce.
Questa donna in tailleur è stata
Capitale d’Italia, ha lanciato le prime grandi industrie, la data di nascita della sua università è il 1404 (1404!), l’architettura è pulita, chiara, con palazzi alti ed il Campus Einaudi che sembra quasi una navicella spaziale, ha dato spazio e respiro ai miei pensatori e alle mie scrittrici preferite: intimorisce, certo che questa donna in tailleur intimorisce.
C’è bisogno di un caffè.
Non è stata una grande idea: voglio dire, per sbarazzarsi di quel timore bisognava scegliere un bar appartato, poco frequentato, ed io invece sono entrata proprio al Caffè San Carlo.
Perfetto.
Per smaltire quel timore sono entrata in un bar fondato nel 1822, sono entrata a gamba tesa nella storia!
Specchi dorati, luci calde, lampadari di cristallo che scendono dal soffitto, sedie in velluto rosso, camerieri con la camicia e senza barba, colonne, statue e qualsiasi dolce di qualsiasi colore e consistenza.
«Prego, si accomodi; Signora, cosa le porto?».
Con un filo di voce ho sussurrato “un caffè“, il cameriere ha sorriso ed è andato via, lasciandomi tra i bisbigli delle persone attorno, eleganti, appena sveglie. C’è un signore anziano di fronte a me, è sicuramente in pensione, tuttavia indossa una cravatta, dal suo elegante cappello grigio spuntano capelli completamente bianchi, sta leggendo il giornale.
Il cameriere mi porta il caffè con un cioccolatino di fianco, i cioccolatini! Prima di andare via devo obbligatoriamente portare con me dei cioccolatini, una bustina di gianduiotti; eppure, nella mia lista di cose da fare, mi scordo di segnarlo, la calma con la quale quel signore sfoglia le pagine mi rapisce, mi affascina.
Eppure il timore non vuole lasciarmi, allora me lo porto dietro fino al salotto della città: piazza San Carlo.
La piazza è circondata da portici che la collegano alla via principale, anche qui tutto sembra esser stato disegnato col righello: la piazza è perfettamente simmetrica, ordinata, e non una ma ben due chiese barocche -quasi del tutto uguali- affiancano il Caval ‘d Brons, o perlomeno così l’ho sentito chiamare, un’enorme statua di Emanuele Filiberto di Savoia a cavallo.
Vado via da piazza San Carlo, corro, forse scappo, forse è per questo che mi fanno così male le gambe e gli stivaletti si ribellano ai piedi, alla pelle; corro tra scorci, sotto alberi, tra persone che attraversano la strada in bicicletta e nonne che stendono le lenzuola fuori dal balcone, d’altronde è pur sempre domenica.
Eppure né il caffè, né il cioccolatino o la corsa tra i portici riesce a portarmi via questo timore.
Signora in tailleur, è tutto questo ordine che c’intimorisce?
Infondo noi siamo fatti di caos, l’essere umano è entropia pura, è la simmetria che m’intimorisce? Dovrebbe aiutare, aiutarci, aiutarmi: la simmetria, l’ordine, mostra nettamente meglio quali sono le strade giuste da seguire, quelle dritte, senza buchi, dislivelli, quelle illuminate ma solo perché il sole batte sulle pareti chiare dei palazzi, non arriva mai a picchiare il capo.
Allora, Signora in tailleur, lei è un paradosso:
in questo perfetto ordine ed equilibrio, in questa perfetta simmetria, lei chiama a sé la nebbia, questo mare di latte che ci fa sbandare?
Sbagliare strade? Perché noi esseri umani, elegante Signora in tailleur, essendo l’essenza dell’entropia, del caos, siamo bravissimi a sbagliare strada anche senza la nebbia, senza i bus che ci accompagnano o qualcuno che ci indichi il nord.Io le strade le sbaglio sempre, a maggior ragione oggi, che sono pure senza mappe.
Senza fiato mi volto, sono quasi sicura di avere un tallone che sanguina, ma all’ora del tramonto capito casualmente davanti la Mole Antonelliana, non che sia difficile da trovare, ma io non la stavo cercando!
Sì, Torino mi ha innervosita, intimorita, mi ha fatta correre tra la sua simmetria e, paradosso dei paradossi, quello stesso ordine, quella stessa perfezione mi ha fermata.
La Mole, per guardarla tutta, richiederebbe il collo di una giraffa; alzo talmente tanto il mio che mi fa male la testa, che quasi rischio di cadere all’indietro. Vorrei essere King Kong, o Cosimo de Il Barone Rampante, invece di salire sugli alberi salirei sulla Mole, arriverei alla punta solo per guadagnare una nuova prospettiva: confermare con i miei stessi occhi che sì, Torino è quadrata.
Invece sono una giraffa, con occhi socchiusi sensibili alla luce del cielo; Stefano Benni scriveva che la giraffa ha il cervello distante dal cuore, si è innamorata e ancora non lo sa.
Scendo verso il fiume, compro gli orecchini, levo le scarpe, forse tra un po’ prenderò anche io uno Spritz.
Non è l’ordine ad intimorire, non è la simmetria o la perfezione: questi sono tutti concetti che il mio cervello immagazzina perfettamente, e li illumina, li elogia. È che Benni sbagliava, non solo le giraffe hanno il cuore troppo distante dal cervello.
La prima volta che ho visto Torino non era una Signora in tailleur, era una ragazzina con le trecce ordinate ed un vestitino chiaro, ed io ero innamorata.
Nel “salotto della città” il Caval ‘d Brons non era Emanuele Filiberto, era diventato un cavaliere che rinfoderava la spada dopo aver combattuto: c’eravamo seduti per terra, inventando la storia di un giovane contadino diventato cavaliere, innamorato di un’impossibile e bellissima donna chiusa in un Castello, dall’altro lato del Po.
Alla fine del gioco dei racconti, il Caval ‘d Brons era diventata un semplice oggetto: non ritraeva nessuno, era stato declassato a imponente figura che separava due giovani convinti di amarsi, e non c’è niente di meno ordinato e simmetrico che questo. La statua era l’ostacolo che ci permetteva di giocare ad acchiapparci, le giravamo attorno correndo: chissà quanti baci di innamorati ha guardato Emanuele Filiberto di Savoia.
Ora c’è bisogno dello Spritz.
Non ci sono più canoe di fronte a me sulle quali saltare, i talloni non mi sanguinano più, il signore ha finito il suo Spritz e ha riportato la sedia in metallo rosa al bar.
Rimetto gli stivaletti, è tempo, e poi non si può entrare in un bar di Torino a piedi scalzi, la Signora in tailleur non approverebbe.
Forse è al Castello che ho davanti quello in cui avevamo rinchiuso quella impossibile e bellissima donna, quella che aspettava il cavaliere che arrivasse da piazza San Carlo; tiro fuori il telefono per fare una foto, per mandargli un messaggio, per sapere se dopo anni quel cavaliere la principessa l’ha salvata.
Telefono morto: forse è questo il segreto di Torino, ciò che sembra sventura, caos, imprevisto, è parte di qualcosa di più grande, di un ordine e una simmetria che questa città conosce.
Il telefono scarico mi permette di imboccare strade diverse, questa volta la Signora in tailleur mi ha risparmiato la nebbia.
Vado a chiedere uno Spritz, e magari anche un caricabatterie.
Vi aspetto sempre al prossimo capitolo, con nuove avventure, nuove parole, con amore, ordine e disordine,
la vostra Her.