Her: Capitoli Universitari
Capitolo 1: Bologna

Carissimi e carissime voi,
Guccini cantava:
Bologna è una vecchia signora dai fianchi un po’ molli
[…] Bologna arrogante e papale, Bologna la rossa e fetale
Bologna la grassa e l’umana.
Quando si pensa a Bologna si pensa alle canzoni, a Piazza Grande, a Lucio Dalla, all’attivismo, ai portici, alla Bologna che è “un appuntamento col destino”.
No, Bologna è un appuntamento con la stazione.
Leggenda vuole che la stazione di Bologna sia stata ispirata dal labirinto costruito da Dedalo, quello stesso labirinto descritto da Dürrenmatt ne Il Minotauro.
Ok, ok, non è vero, ma non sarebbe così impossibile.
La stazione di Bologna esiste dal 1856 ed è dal 1856 che le persone continuano a vagare; si dice che ci si perde per poi ritrovarsi, ed io nella stazione di Bologna mi sono persa e ritrovata un quantitativo non calcolabile di volte.
Quando si perde un treno -o una coincidenza- rimane ben poco da fare: si può restare a guardare per ore ed ore la propria immagine riflessa nelle vetrine dei negozi di gelati, fast food, o vestiti e iniziare ad empatizzare con il Minotauro.
Sì, il Minotauro di Dürrenmatt: una creatura per metà uomo e per metà bestia, talmente ignaro del mondo da non sapere chi è lui stesso, o dove si trova (che infondo è la stessa sensazione che ti raggiunge dopo un’ora e mezza passata vagando all’interno delle stazioni).
Il labirinto di Dürrenmatt non è così diverso dalle vetrine dei negozi: è fatto solo di specchi, in modo tale che il suo unico abitante non si renda conto di essere solo.
Il Minotauro guarda la sua immagine senza sapere che no, davanti non ha nessuno.
Ecco, Bologna è romantica e malinconica, ti riempie di gente e ti lascia da sola ad osservarti davanti le vetrine.
Io perlomeno avevo un cono nocciola e pistacchio che mi aspettava oltre il mio riflesso, il povero Minotauro nemmeno quello.
Quando si perde un treno o una coincidenza ci si può arrendere.
Alzare le mani e sbuffare: non è per forza un’atto di pura indifferenza, io mi sono arresa agli impegni, alla velocità, e nella mia resa ho trovato il filo per uscire fuori dalla stazione.
Cammino; mi arrendo alla velocità delle cose che non posso controllare, alla coincidenza che ho perso perché la mia immagine nelle vetrine mi ha distratto dal tempo, ma non mi arrendo al mio passo.
Cammino, e cammino perché Bologna è la città delle bici ma delle bici parcheggiate; c’è una costruzione medievale che serviva per difendere la città, Porta Galleria, che in una banale mattinata di un banale mercoledì ha una fila infinita di bici parcheggiate.
Magari Bologna è gentile, se ne prendo in prestito una e poi la riporto non si offende; ce n’è una verde col cestello in vimini, sembra uscita da un film, mi avvicino ma all’effettivo io dove devo andare?
Come il Minotauro di Dürrenmatt, mi guardo ma non più nel riflesso di una vetrina, mi guardo in uno specchio d’acqua nella fontana di un parco.
Non sono una viaggiatrice: chi viaggia ha una preparazione sul luogo, io su Bologna ho due nozioni in croce e forse neanche giuste.
Non sono una viaggiatrice, forse un’avventuriera per la resa dichiarata al tempo, alle imposizioni di treni puntuali persi per variegate distrazioni; io sono una nomade.
Il Minotauro non sapeva dell’esistenza del linguaggio, non poteva dare un nome a ciò che aveva davanti: quella forma amica che lo imitava in qualsiasi piccolo gesto, io invece sono una nomade e Bologna nel mio immaginario è perfetta per le persone come me.
Per chi, pur viaggiando, nello zaino ha di tutto fuorché quello che serve.
E quello che serve ora a me non si trova né nel mio zaino né nelle mie tasche, si trova nei tortellini!
Sì, il filo di Arianna che mi porterà in salvo mi conduce direttamente verso i tortellini bolognesi, pronunciati con quella loro s morbida e sibilata tra le labbra.
Essere una nomade ed esserlo da sola in una città sconosciuta ti concede il lusso di un’estrema libertà, e la libertà ha una sua pericolosa dualità: la solitudine e la più sfrenata eccitazione.
Io mi muovo per le vie che più ho sentito pronunciare, quelle “famose” ma che famose lo sono solo per me: Via dei Mille, Piazza dell’otto Agosto in cui passo solo perché l’otto Agosto è il compleanno di mia sorella, poi Via Piella, e quella me la ricordo perché una mia cara amica abitava qui, e sull’avambraccio si è fatta tatuare tre finestrelle, quelle che vedeva da casa sua.
Poi però, prima dei tortellini, scopro il Reno.
Bologna è tonda, non so se sia tonda anche dall’alto, ma da qui i portici la fanno tonda: portici alti di palazzi arancioni, che quando il sole scende li rende ancora più caldi, come se fosse sempre fine primavera, e a fine primavera sono tutti innamorati.
Non lo dico io, lo dice la storia: la primavera è sempre stata la stagione dell’amore. Lo dicono poeti, cantanti, scrittrici, lo dice una parete della città piena zeppa di lucchetti. Abbiamo proprio strane tradizioni.
Checco + Lucia, Carlo e Veronica, Lisa e Sofia, non li leggo tutti perché Bologna è illuminata dal sole ma resta romantica e malinconica, e allora chissà quanti di loro stanno ancora insieme, chissà quanti lucchetti hanno mantenuto la loro promessa. E poi, nel mio vagare, ecco una targa scura: Canali di Bologna, Finestrella di Via Piella.
C’è realmente un quadrato nella parete, lo spingo ed ecco perché quella via mi era così familiare!
Forse non c’abitava la mia amica con il tatuaggio delle tre finestre, ma sicuramente c’è la finestra che rende Bologna una piccola Venezia, o almeno così l’ho sentita chiamare. Ed è vero, c’è il Reno: un leggerissimo scroscio d’acqua, talmente bassa da poter vedere la strada sotto, chissà cosa pensa chi abita lì. Le persone che vivono su quei balconi la mattina stendono le proprie mutande e si ritrovano -in un banale mercoledì- un faccione con gli occhi spalancati e la bocca aperta sbucare da una finestrella.
Anche quando non siamo vicini di casa rimaniamo impiccioni: molto italiani.
Via Piella, Via Marsala e poi Via Carbonara perché inizio a sentire fame, e il mio filo d’Arianna continua a trascinarmi verso i tortellini.
Le Osterie mi spaventano: hanno tradizioni, anni di storie, passaggi familiari, litigi familiari, hanno il bis-nonno del proprietario che dopo la seconda guerra mondiale ha messo a terra il primo mattone, il padre del proprietario ancora in cassa, le belle Osterie hanno delle storie profonde, e a me le storie fanno paura.
Via delle Belle Arti m’ispira: il sole picchia sulla strada, in queste città il pavimento emana il sudore delle persone che c’hanno camminato, di tutte le persone che in questi millenni hanno passeggiato su Bologna.
Anche le suole delle scarpe bruciano.
C’è una Signora che ca
mmina in ciabatte, quelle delle nonne, un po’ alte ed in velluto; ha i capelli corti, lilla, rughe piene di gentilezza, un grembiule addosso con il nome della sua Osteria ricamato
sopra, la chiamano “l’Emilia”.
L’Emilia fa i tortellini più buoni che io abbia mai assaggiato: mi fa vedere come si chiudono, che il segreto è il ripieno ma anche lo spessore con cui si stende la pasta, i tortellini di Emilia mi costringono a mangiare in un’Osteria, a guardare quelle rughe attorno alla bocca, gli occhi azzurri, rughe che conservano farina, litigi e chissà quanti sguardi di clienti persi e solitari.
Nomadi, clienti come me.
Le Osterie mi fanno paura perché mostrano il tempo che passa, le gestioni che cambiano, i menù che non sono più su carta e devi combattere col cellulare per scannerizzarli direttamente dal tovagliolo.
Ma oggi mi sono arresa al tempo, allora mi fido di Emilia, che quando porta via il piatto vuoto mi dice dove andare, come muovermi.
Anche se non si dice ai nomadi che strada prendere; io però le dò fiducia.
Due torri, mi ha detto che sono il simbolo della città.
Le ho viste, sì, torcendo completamente il collo e guardando il cielo, tentando di vederne la fine -se sei troppo vicina no, la fine non si vede- ma la mia attenzione va altrove.
I portici di Bologna: ci passeggio sotto, o dentro, non so quale sia il termine giusto da usare.
Ci sono persone, storie, uomini dalle gambe incrociate che sorseggiano caffè, ragazze con Spritz tra le dita lunghe, studenti seduti per terra -perché sì, solo loro si siedono per terra- che ripetono tranquillamente tra loro. Le parole si mischiano: ci sono appuntamenti, decisioni da prendere, baci da dare, interrogazioni da preparare, Sara forse non darà l’esame ma Matteo vuole che ci provi lo stesso, Davide è appena arrivato in città e di ogni luogo chiede in che strada si trovi.
Forse sono proprio le torri di Bologna, i portici, che danno alle persone la sicurezza e la sfrontatezza di bere Spritz alle due del pomeriggio o di sedersi per terra e studiare così, sotto al sole.
Poi c’è qualcuno che canta, come poteva mancare in una città così qualcuno che si mettesse a cantare?
Dormo sull’erba e ho molti amici intorno a me
Gli innamorati in Piazza Grande
Dei loro guai, dei loro amori tutto so
Sbagliati e no.
La “Piazza Grande” di Dalla non è Piazza Maggiore, come in molti pensano, ma Piazza Cavour; questa è una delle poche chicche che so sulla città.
Corro, corro sotto il sole di Bologna, dentro l’arancione della città che sembra bruciarmi la pelle, corro su un pavimento fatto di pietre rettangolari e posizionate storte tra loro per vedere la Piazza Grande di Lucio.
Non so cosa pensavo di trovare, oltre la panchina con la statua del cantautore: sembra felice, guarda le sue città.
Un signore è seduto accanto a lui, gli sussurra qualcosa, non capisco se gli stia parlando o cantando una delle sue canzoni. Non mi avvicino troppo, sembra un momento intimo.
Una bambina però non la pensa come me, si avvicina, forse troppo, la mamma la richiama subito e lei si lamenta, vuole il gelato.
«Adesso dopo ci andiamo», questa è la risposta della mamma.
Adesso dopo, cerco di non ridere. Lo so che è parte del loro dialetto, comunque mi sforzo per non ridere.
Adesso dopo ci devo tornare a Bologna, per conoscerla meglio.
Torno indietro, sotto/dentro i portici, che nascondono dal sole, dalla pioggia, nascondono segreti, chissà quanti baci hanno nascosto: amanti, studenti, tutti sotto i portici.
Devo tornare in stazione e mi distrae una finestra aperta, una finestra di un primo piano: tre ragazze sedute attorno a un tavolo, ci sono libri, fogli, penne, sigarette, forse una di loro sta ripetendo qualcosa, le altre due ridono, prendono il caffè.
Chissà quanto sono grandi le stanze degli studenti, io dico che quelle tre ragazze hanno solo due stanze, una è una doppia, eppure ci stanno bene, quella è la loro tana, piena di parole, libri, paura dei professori, piene di lacrime di quando ti manca qualcuno che Bologna non la abita.
A modo mio
Avrei bisogno di carezze anch’io
Ho letto che Bologna è abitata da pochissimi bolognesi doc, chissà quelli che arrivano dove le trovano le carezze di cui hanno bisogno.
Vorrei vedere un museo a Bologna, il teatro di Bologna, vorrei fare una serata a Bologna, bermi una birra con degli sconosciuti a Bologna, invece sono di nuovo nel mio labirinto pieno di vetrate.
Di nuovo seduta di fronte la gelateria; questa volta il binario lo controllo due volte, e chiedo a tre persone diverse se sto andando nella direzione giusta.
Arrivo dove devo arrivare, arriva il treno, arriva il mio riflesso nel grande vetro del vagone.
Un riflesso con occhi pieni di parole, persone, colori, tortellini, storie.
Magari mi arrenderò più spesso al tempo che passa.
Intanto vi lascio con questo primo Capitolo del mio blog universitario, con amore,
dalla vostra Her.